sabato 1 giugno 2013

La verità “nel” testo: l’ermeneutica realista di René Girard

 

Forum della rivista di filosofia

ACTA PHILOSOPHICA

Brani tratti dalla relazione di Marco Porta 

La verità “nel” testo: l’ermeneutica realista di René Girard


«Il romanzo è il luogo della più profonda verità esistenziale e sociale del XIX secolo»[1]. Questa perentoria affermazione mostra emblematicamente, a mio avviso, il peculiare approccio interpretativo che contraddistingue l’analisi girardiana dei testi letterari, dalla tragedia greca ai romanzi moderni, alla letteratura mitologica: un realismo ermeneutico non privo di implicazioni filosofiche. Come è noto, lo studioso franco-americano sostiene che i grandi letterati (Cervantes, Shakespeare, Sthendal, Flaubert, Dostoevskij, Proust) smentiscono l’illusione “romantica” dell’assoluta originalità e autonomia del desiderio umano e ne mostrano invece la natura mimetica. Mentre l’appetito si rivolge ai beni necessari alla vita ed è immediato e rettilineo, il desiderio si rivolge in grande misura agli oggetti che gli altri desiderano o posseggono. In questo senso il desiderio è mediato, triangolare, è appunto imitativo: si desidera qualcosa perché si vuole essere come l’altro, cioè il parente, l’amico, il vicino, il collega, ecc. La convergenza dei due desideri (dell’imitatore e del modello) sullo stesso oggetto fa sì che il modello si trasformi quasi inevitabilmente in rivale. Sorgono così la competizione e la conflittualità che iniettano nelle relazioni sociali una miscela esplosiva di sentimenti e di atteggiamenti (invidia, gelosia, risentimento, emulazione), destinata a far scoppiare l’aggressività violenta dei singoli e delle comunità, come testimoniano ampiamente la storia e la cronaca.
Lungo tutto l’arco della sua ricerca, Girard ha privilegiato un approccio decisamente realistico, senza concedere eccessiva importanza alle distinzioni tra significati e significanti, tra denotazioni e connotazioni, per attingere direttamente il “referente” (la verità oggettuale): in questo caso una verità antropologica di portata universale, in grado di spiegare comportamenti come lo snobismo, la dipendenza dalle mode, i delitti passionali, o patologie psichiatriche come il sadismo, il masochismo, l’anoressia, la bulimia. L’approccio di Girard contrastava nettamente con le teorie linguistiche della semiologia post-strutturalista, che negli anni Sessanta e Settanta furoreggiavano nell’ambito della critica letteraria, soffermando l’attenzione sulle funanboliche e proteiformi potenzialità semantiche del linguaggio, e disinteressandosi con scettica noncuranza della sua funzione referenziale-veritativa. “Il faut tuer le référent” dicevano scherzosamente Barthes ed Eco a metà degli anni Sessanta. In perfetta coerenza con questa “teoresi”, Eco diede forma letteraria, nel suo noto best-seller Il nome della rosa, a quello che Guido Sommavilla definì un “allegro nominalismo nichilistico”[2].
 Con il suo robusto realismo ermeneutico Girard è entrato fin dall’inizio in rotta di collisione con la tendenza relativista e scettica della cosiddetta postmodernità filosofica, allergica alle istanze “veritative”, soprattutto se di genere metafisico e religioso. Specialmente in Francia, nelle ultime decadi del XX secolo, la filosofia analitica del linguaggio, l’ermeneutica heideggeriana, la semiologia post-strutturalista, le teorie psicanalitiche, sono confluite in una corrente filosofica che sembra attuare il progetto nichilistico abbozzato da Nietzsche in un celebre appunto del 1884, per la composizione della quarta parte dello Zarathustra: «Noi facciamo un esperimento con la verità! Forse l’umanità andrà perduta! Ebbene, così sia!»[4]. Nell’introduzione alla raccolta di saggi pubblicati con l’eloquente titolo La voce inascoltata della realtà, Girard tiene a precisare che i suoi scritti «non riflettono le mode chiassose dell’ultimo scorcio di secolo, le diverse reincarnazioni della cosiddetta French theory che, negli anni della loro composizione, dominava la scena delle università americane… Tutte queste teorie consistevano in una distruzione illusoria della realtà»[5]. Autori come Lyotard, Foucalt, Derrida, Baudrillard, Deleuze, Guattari, benché molto diversi per interessi tematici e proposte teoretiche, convergono nel problematizzare la presa conoscitiva del linguaggio e condividono una posizione filosofica antifondazionista. Ma anche fuori dalla Francia i “postmoderni”, ad esempio Rorty negli Stati Uniti e Vattimo in Italia, assegnano alla filosofia il compito di decostruire le pretenziose “metanarrazioni” dei pensieri “forti” del passato, per sostituirvi uno spazio retorico dove possano incontrarsi e coesistere tutte le differenze culturali: una sorta di conversazione dove la political correctness impone di sacrificare i giudizi di verità e di valore all’esigenza di trovare un consenso amichevole fra le parti. Come afferma Vattimo, contraddicendo Platone e Aristotele, “amica veritas, sed magis amicus Plato”.
Un’ulteriore provocazione allo scetticismo postmoderno è venuta dall’interpretazione girardiana del sacro arcaico come risoluzione della violenza mimetica e dalla sua conseguente teoria del religioso come origine della cultura e delle istituzioni sociali. Non per nulla l’accademico di Stanford tiene a ribadire che «da un punto di vista filosofico si dovrebbero sempre sottolineare gli aspetti realistici della mia teoria. L’intera prospettiva sulla mitologia contenuta nella mia teoria rappresenta una vera rivoluzione nell'atteggiamento verso il realismo tipico delle discipline umanistiche del XX secolo»[6]. Indagato infatti senza i pregiudizi e le eccessive cautele di derivazione relativista, il vasto universo mitologico ha potuto svelare nell’analisi girardiana una verità “storica” di fondamentale importanza, e cioè che l’ordine e l’organizzazione sociale delle primitive comunità umane traggono origine da una violenta crisi risolta per mezzo di un sacrificio. In una varietà straordinaria di forme narrative, le mitologie di ogni luogo del pianeta attestano con una sostanziale e ineludibile unanimità la vicenda davvero sconvolgente che nel caos primordiale, simboleggiato spesso nei miti dalla guerra tra gli dèi, la violenza di tutti contro tutti si risolve improvvisamente nella violenza di tutti contro uno. Nel lento processo che in decine di migliaia di anni ha condotto dagli ominidi all’homo sapiens sapiens il meccanismo vittimario del caprio espiatorio servì da valvola di scarico o parafulmine della violenza. Quando le rivalità mimetiche spingevano i primitivi gruppi umani sull’orlo dell’autodistruzione violenta, il gruppo si coalizzava nell’identificazione di un colpevole, il cui successivo linciaggio riportava “miracolosamente” la pace e la concordia, con un tale beneficio per la comunità che la vittima sacrificale veniva poi divinizzata. È così che nei tempi remoti dell’umanità è sorta la dimensione sacrale, con la sua caratteristica ambiguità: violenta e pacificatrice, malefica e benefica.
Contro l’interpretazione puramente allegorica del mito, proposta nell’antichità dai filosofi greci, e soprattutto contro la lettura razionalista moderna che squalifica il mito come semplice fiction o come pensiero selvaggio e irrazionale, Girard dimostra che nei testi mitologici è nascosta la verità storica, reale, dell’omicidio fondatore. Poiché i narratori sono degli assassini “in buona fede”, il mito afferma la colpevolezza della vittima. Occorre “decostruire” il testo mitico per smascherare la menzogna. Come si vede, il realismo ermeneutico di Girard non è sudditanza ingenua al testo: «Io non esito a contraddire il testo, come noi contraddiciamo i cacciatori di streghe quando ci assicurano che le loro vittime sono veramente colpevoli. Bisogna far saltare in aria il mito nello stesso senso con cui mandiamo all’aria i processi alle streghe. Bisogna far vedere che, dietro al mito, non c’è né il puro immaginario, né il puro avvenimento, ma un resoconto falsato dall’efficacia stessa del meccanismo vittimario».
La ricerca di Girard è approdata a una lettura “antropologica” della Bibbia che fa emergere dal “testo” lo smascheramento della menzogna vittimaria del sacro arcaico: a differenza di tutte le tradizioni mitiche, la Bibbia dichiara infatti, senza eccezioni, l’innocenza delle vittime sacrificali. Dall’uccisione di Abele alla crocifissione di Cristo la violenza umana viene denunciata in tutta la sua cruda verità persecutoria. In un Occidente che accusa il cristianesimo di etnocentrismo culturale, di colonialismo religioso, di intolleranza dogmatica, che ne fa insomma il capro espiatorio dei tempi moderni, la voce di Girard si è alzata con forza per dimostrare che è proprio dal Vangelo che scaturiscono gli atteggiamenti di cui oggi, pur in mezzo a tante contraddizioni, può andar fiero il mondo occidentale: la solidarietà con le vittime, il rispetto delle minoranze, l’apertura nei confronti del diverso, ecc. La violenza umana non ha nulla a che vedere con la convinzione di verità propria della fede, ma nasce nel cuore dell’uomo che si lascia accecare dai desideri mimetici (o con terminologia biblica, dalla triplice concupiscenza) e la via più sicura per fronteggiarla passa per l’imitazione della kénosis di Cristo, «il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce»[7].
Il recente dibattito suscitato in Italia dalla pubblicazione del saggio di M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo[8], mostra che il disincanto scettico postmoderno comincia a dare qualche segno di estenuazione. C’è da augurarsi che le ragioni del realismo siano di nuovo ammesse nella discussione sul “caso serio” della fede, smettendola con il vezzo di “far ridere della verità”, come in parte aveva fatto lo stesso Ferraris sostenendo qualche anno fa che credere in Gesù sia più o meno equivalente a credere in Babbo Natale[9]. Senz’altro le opere di Girard contribuiranno ulteriormente a sdoganare la riflessione filosofica dall’impasse dello scetticismo relativista.




[1] R. Girard, Mensonge romantique et verité romanesque, Grasset, Paris 1961; trad.it., Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965, p. 97.
[2] «La Civiltà Cattolica» 1981, III, pp. 502-506.
[4] «– wir machen einen Versuch mit der Wahrheit! Vielleicht geht die Menschheit dran zu Grunde! Wohlan!» (Nietzsche Werke, ed. crit. a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VII/2, Nachgelassene Fragmente (Frühjahr bis Herbst 1884) Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1974, p. 84 (25 [305]).
[5] Adelphi, Milano 2006, p. 11 (l’originale francese è del 2002: La voix méconnue du réel).
[6] R. Girard, Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con P. Antonello e J. C. de Castro Rocha, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 111.
[7] Fil 2, 6-8.
[8] M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari 2012.
[9] M. Ferraris, Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede?, Bompiani, Milano 2006.

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