Forum della rivista di filosofia
ACTA PHILOSOPHICA
Brani tratti dalla relazione di Marco Porta
La verità “nel” testo: l’ermeneutica realista di René Girard
«Il romanzo è il luogo della più profonda verità esistenziale e sociale
del XIX secolo»[1]. Questa perentoria
affermazione mostra emblematicamente, a mio avviso, il peculiare approccio interpretativo
che contraddistingue l’analisi girardiana dei testi letterari, dalla tragedia
greca ai romanzi moderni, alla letteratura mitologica: un realismo ermeneutico non
privo di implicazioni filosofiche. Come è noto, lo studioso franco-americano
sostiene che i grandi letterati (Cervantes, Shakespeare, Sthendal, Flaubert,
Dostoevskij, Proust) smentiscono l’illusione “romantica” dell’assoluta originalità
e autonomia del desiderio umano e ne mostrano invece la natura mimetica. Mentre
l’appetito si rivolge ai beni necessari alla vita ed è immediato e rettilineo, il
desiderio si rivolge in grande misura agli oggetti che gli altri desiderano o
posseggono. In questo senso il desiderio è mediato, triangolare, è appunto
imitativo: si desidera qualcosa perché si vuole essere come l’altro, cioè il
parente, l’amico, il vicino, il collega, ecc. La convergenza dei due desideri
(dell’imitatore e del modello) sullo stesso oggetto fa sì che il modello si
trasformi quasi inevitabilmente in rivale. Sorgono così la competizione e la conflittualità
che iniettano nelle relazioni sociali una miscela esplosiva di sentimenti e di
atteggiamenti (invidia, gelosia, risentimento, emulazione), destinata a far
scoppiare l’aggressività violenta dei singoli e delle comunità, come
testimoniano ampiamente la storia e la cronaca.
Lungo tutto l’arco della sua ricerca, Girard ha privilegiato un approccio
decisamente realistico, senza concedere eccessiva importanza alle distinzioni tra
significati e significanti, tra denotazioni e connotazioni, per attingere
direttamente il “referente” (la verità oggettuale): in questo caso una verità
antropologica di portata universale, in grado di spiegare comportamenti come lo
snobismo, la dipendenza dalle mode, i delitti passionali, o patologie psichiatriche
come il sadismo, il masochismo, l’anoressia, la bulimia. L’approccio di Girard
contrastava nettamente con le teorie linguistiche della semiologia
post-strutturalista, che negli anni Sessanta e Settanta furoreggiavano nell’ambito
della critica letteraria, soffermando l’attenzione sulle funanboliche e
proteiformi potenzialità semantiche del linguaggio, e disinteressandosi con
scettica noncuranza della sua funzione referenziale-veritativa. “Il faut tuer
le référent” dicevano scherzosamente Barthes ed Eco a metà degli anni Sessanta.
In perfetta coerenza con questa “teoresi”, Eco diede forma letteraria, nel suo noto
best-seller Il nome della rosa, a
quello che Guido Sommavilla definì un “allegro nominalismo nichilistico”[2].
Con il suo robusto realismo ermeneutico Girard è entrato fin dall’inizio in rotta di collisione con la tendenza relativista e scettica della cosiddetta postmodernità filosofica, allergica alle istanze “veritative”, soprattutto se di genere metafisico e religioso. Specialmente in Francia, nelle ultime decadi del XX secolo, la filosofia analitica del linguaggio, l’ermeneutica heideggeriana, la semiologia post-strutturalista, le teorie psicanalitiche, sono confluite in una corrente filosofica che sembra attuare il progetto nichilistico abbozzato da Nietzsche in un celebre appunto del 1884, per la composizione della quarta parte dello Zarathustra: «Noi facciamo un esperimento con la verità! Forse l’umanità andrà perduta! Ebbene, così sia!»[4]. Nell’introduzione alla raccolta di saggi pubblicati con l’eloquente titolo La voce inascoltata della realtà, Girard tiene a precisare che i suoi scritti «non riflettono le mode chiassose dell’ultimo scorcio di secolo, le diverse reincarnazioni della cosiddetta French theory che, negli anni della loro composizione, dominava la scena delle università americane… Tutte queste teorie consistevano in una distruzione illusoria della realtà»[5]. Autori come Lyotard, Foucalt, Derrida, Baudrillard, Deleuze, Guattari, benché molto diversi per interessi tematici e proposte teoretiche, convergono nel problematizzare la presa conoscitiva del linguaggio e condividono una posizione filosofica antifondazionista. Ma anche fuori dalla Francia i “postmoderni”, ad esempio Rorty negli Stati Uniti e Vattimo in Italia, assegnano alla filosofia il compito di decostruire le pretenziose “metanarrazioni” dei pensieri “forti” del passato, per sostituirvi uno spazio retorico dove possano incontrarsi e coesistere tutte le differenze culturali: una sorta di conversazione dove la political correctness impone di sacrificare i giudizi di verità e di valore all’esigenza di trovare un consenso amichevole fra le parti. Come afferma Vattimo, contraddicendo Platone e Aristotele, “amica veritas, sed magis amicus Plato”.
Con il suo robusto realismo ermeneutico Girard è entrato fin dall’inizio in rotta di collisione con la tendenza relativista e scettica della cosiddetta postmodernità filosofica, allergica alle istanze “veritative”, soprattutto se di genere metafisico e religioso. Specialmente in Francia, nelle ultime decadi del XX secolo, la filosofia analitica del linguaggio, l’ermeneutica heideggeriana, la semiologia post-strutturalista, le teorie psicanalitiche, sono confluite in una corrente filosofica che sembra attuare il progetto nichilistico abbozzato da Nietzsche in un celebre appunto del 1884, per la composizione della quarta parte dello Zarathustra: «Noi facciamo un esperimento con la verità! Forse l’umanità andrà perduta! Ebbene, così sia!»[4]. Nell’introduzione alla raccolta di saggi pubblicati con l’eloquente titolo La voce inascoltata della realtà, Girard tiene a precisare che i suoi scritti «non riflettono le mode chiassose dell’ultimo scorcio di secolo, le diverse reincarnazioni della cosiddetta French theory che, negli anni della loro composizione, dominava la scena delle università americane… Tutte queste teorie consistevano in una distruzione illusoria della realtà»[5]. Autori come Lyotard, Foucalt, Derrida, Baudrillard, Deleuze, Guattari, benché molto diversi per interessi tematici e proposte teoretiche, convergono nel problematizzare la presa conoscitiva del linguaggio e condividono una posizione filosofica antifondazionista. Ma anche fuori dalla Francia i “postmoderni”, ad esempio Rorty negli Stati Uniti e Vattimo in Italia, assegnano alla filosofia il compito di decostruire le pretenziose “metanarrazioni” dei pensieri “forti” del passato, per sostituirvi uno spazio retorico dove possano incontrarsi e coesistere tutte le differenze culturali: una sorta di conversazione dove la political correctness impone di sacrificare i giudizi di verità e di valore all’esigenza di trovare un consenso amichevole fra le parti. Come afferma Vattimo, contraddicendo Platone e Aristotele, “amica veritas, sed magis amicus Plato”.
Un’ulteriore provocazione allo scetticismo postmoderno è venuta dall’interpretazione
girardiana del sacro arcaico come risoluzione della violenza mimetica e dalla sua
conseguente teoria del religioso come origine della cultura e delle istituzioni
sociali. Non per nulla l’accademico di Stanford tiene a ribadire che «da un
punto di vista filosofico si dovrebbero sempre sottolineare gli aspetti
realistici della mia teoria. L’intera prospettiva sulla mitologia contenuta
nella mia teoria rappresenta una vera rivoluzione nell'atteggiamento verso il
realismo tipico delle discipline umanistiche del XX secolo»[6]. Indagato
infatti senza i pregiudizi e le eccessive cautele di derivazione relativista,
il vasto universo mitologico ha potuto svelare nell’analisi girardiana una
verità “storica” di fondamentale importanza, e cioè che l’ordine e
l’organizzazione sociale delle primitive comunità umane traggono origine da una
violenta crisi risolta per mezzo di un sacrificio. In una varietà straordinaria
di forme narrative, le mitologie di ogni luogo del pianeta attestano con una
sostanziale e ineludibile unanimità la vicenda davvero sconvolgente che nel
caos primordiale, simboleggiato spesso nei miti dalla guerra tra gli dèi, la violenza
di tutti contro tutti si risolve improvvisamente nella violenza di tutti contro
uno. Nel lento processo che in decine di migliaia di anni ha condotto dagli
ominidi all’homo sapiens sapiens il
meccanismo vittimario del caprio espiatorio servì da valvola di scarico o
parafulmine della violenza. Quando le rivalità mimetiche spingevano i primitivi
gruppi umani sull’orlo dell’autodistruzione violenta, il gruppo si coalizzava nell’identificazione
di un colpevole, il cui successivo linciaggio riportava “miracolosamente” la
pace e la concordia, con un tale beneficio per la comunità che la vittima
sacrificale veniva poi divinizzata. È così che nei tempi remoti dell’umanità è
sorta la dimensione sacrale, con la sua caratteristica ambiguità: violenta e
pacificatrice, malefica e benefica.
Contro l’interpretazione puramente allegorica del mito, proposta nell’antichità
dai filosofi greci, e soprattutto contro la lettura razionalista moderna che
squalifica il mito come semplice fiction o come pensiero selvaggio e
irrazionale, Girard dimostra che nei testi mitologici è nascosta la verità
storica, reale, dell’omicidio fondatore. Poiché i narratori sono degli
assassini “in buona fede”, il mito afferma la colpevolezza della vittima.
Occorre “decostruire” il testo mitico per smascherare la menzogna. Come si
vede, il realismo ermeneutico di Girard non è sudditanza ingenua al testo: «Io
non esito a contraddire il testo, come noi contraddiciamo i cacciatori di
streghe quando ci assicurano che le loro vittime sono veramente colpevoli.
Bisogna far saltare in aria il mito nello stesso senso con cui mandiamo
all’aria i processi alle streghe. Bisogna far vedere che, dietro al mito, non
c’è né il puro immaginario, né il puro avvenimento, ma un resoconto falsato
dall’efficacia stessa del meccanismo vittimario».
La ricerca di Girard è approdata a una lettura “antropologica” della
Bibbia che fa emergere dal “testo” lo smascheramento della menzogna vittimaria
del sacro arcaico: a differenza di tutte le tradizioni mitiche, la Bibbia
dichiara infatti, senza eccezioni, l’innocenza delle vittime sacrificali. Dall’uccisione
di Abele alla crocifissione di Cristo la violenza umana viene denunciata in
tutta la sua cruda verità persecutoria. In un Occidente che accusa il
cristianesimo di etnocentrismo culturale, di colonialismo religioso, di
intolleranza dogmatica, che ne fa insomma il capro espiatorio dei tempi
moderni, la voce di Girard si è alzata con forza per dimostrare che è proprio
dal Vangelo che scaturiscono gli atteggiamenti di cui oggi, pur in mezzo a
tante contraddizioni, può andar fiero il mondo occidentale: la solidarietà con
le vittime, il rispetto delle minoranze, l’apertura nei confronti del diverso,
ecc. La violenza umana non ha nulla a che vedere con la convinzione di verità
propria della fede, ma nasce nel cuore dell’uomo che si lascia accecare dai
desideri mimetici (o con terminologia biblica, dalla triplice concupiscenza) e
la via più sicura per fronteggiarla passa per l’imitazione della kénosis di Cristo, «il quale, pur
essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con
Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile
agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino
alla morte e alla morte di croce»[7].
Il recente dibattito suscitato in Italia dalla pubblicazione del saggio
di M. Ferraris, Manifesto del nuovo
realismo[8], mostra che il disincanto
scettico postmoderno comincia a dare qualche segno di estenuazione. C’è da
augurarsi che le ragioni del realismo siano di nuovo ammesse nella discussione sul
“caso serio” della fede, smettendola con il vezzo di “far ridere della verità”,
come in parte aveva fatto lo stesso Ferraris sostenendo qualche anno fa che
credere in Gesù sia più o meno equivalente a credere in Babbo Natale[9].
Senz’altro le opere di Girard contribuiranno ulteriormente a sdoganare la
riflessione filosofica dall’impasse dello
scetticismo relativista.
[1] R. Girard, Mensonge
romantique et verité romanesque, Grasset, Paris 1961; trad.it., Menzogna romantica e verità romanzesca,
Bompiani, Milano 1965, p. 97.
[2] «La Civiltà Cattolica» 1981,
III, pp. 502-506.
[4] «– wir machen einen Versuch mit der Wahrheit!
Vielleicht geht die Menschheit dran zu Grunde! Wohlan!» (Nietzsche Werke,
ed. crit. a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VII/2, Nachgelassene
Fragmente (Frühjahr bis Herbst 1884) Walter de Gruyter, Berlin-New York,
1974, p. 84 (25 [305]).
[5] Adelphi, Milano 2006, p. 11
(l’originale francese è del 2002: La voix
méconnue du réel).
[6] R. Girard, Origine
della cultura e fine della storia. Dialoghi con P. Antonello e J. C. de Castro
Rocha, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 111.
[7] Fil 2, 6-8.
[8] M. Ferraris, Manifesto
del nuovo realismo, Laterza, Bari 2012.
[9] M. Ferraris, Babbo
Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede?, Bompiani, Milano 2006.
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