domenica 26 gennaio 2014

La confessione di una profuga



Sono una profuga e comincio a capire che, quando si lascia una patria, si lasciano tutte le patrie possibili. Quello che noi profughi riceviamo per attestare la nostra identità, è solo un documento; di qua o di là, in qualsiasi angolo del mondo, la nostra identità è solo un documento. La spoliazione che subiamo non ci toglie di dosso soltanto la vera identità - non quella di un freddo e anonimo pezzo di carta - ma ci toglie anche tutto quello che gli uomini chiamano patria, in qualsiasi epoca. Lo capiamo solo lentamente.

Attraversiamo paesi che ci é  consentito attraversare, in ognuno di essi ci spogliamo di qualcosa e, via via sempre più nudi e con minor bagaglio,  andiamo avanti. Nel vero senso della parola, quello che possediamo non fa che diminuire. Questa spoliazione, Dio mio… Portiamo con noi tutto quello che abbiamo, con un attaccamento maniacale. 

Una volta però, in Francia, dove un giorno approdammo - ci avevano concesso di attraversare il paese - prima di riprendere il nostro viaggio… mi accorsi che da anni mi portavo dietro un sacchetto di carta vuoto, un sacchetto su cui avevo segnato il nome e l'indirizzo della mia modista… Era tutto sgualcito, uno di quei sacchetti che si usano per incartare le merci, e chissà dov'era ormai il cappello che un tempo aveva contenuto, così come d'altronde non esisteva più neanche il negozio di modista il cui indirizzo si leggeva sulla carta, e forse non vivevano più né la proprietaria del negozio, né molte delle clienti che dovevano aver comprato i loro cappellini in quel negozio… 

Eppure, quando nel transitare da un paese all'altro, da un'emigrazione all'altra, trovai sul fondo di una valigia quel sacchetto di carta del mio paese, accuratamente ripiegato, provai una strana quiete, come se finalmente, dopo tanta insicurezza e tanto vagare, dopo tanti tentativi, avessi in mano qualcosa di davvero tangibile, di affidabile, a cui potermi aggrappare nei giorni che mi restavano da vivere, nella parte di viaggio ancora da affrontare.

Non si trattò di un attacco di sentimentalismo, padre… Non fu un soprassalto di commozione, come quando ci capita in mano, in un paese straniero, un oggetto familiare proveniente dalla nostra patria. Non piansi, come un esule che guarda vecchie fotografie… 

La cosa strana era quella sensazione di quiete, di sicurezza, come se avessi in mano la prova inconfutabile e decisiva di essere esistita un tempo… Ma in quell'istante capii anche che nessun documento rilasciato da qualsiasi paese nel mondo mi sarebbe servito, ormai non sarei più stata davvero me stessa, non avrei più avuto un'identità… Posso essere una cittadina, una contribuente fiscale, una lavoratrice… ma non più me stessa.

Ecco come avanza la nostra spoliazione.


Tratto da: Il Sangue di San Gennaro di Sandor Marai 

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